Gastronomie
Gastronomische Beiträge jenseits der Alpen in der Küche von Timau-Tischlbong
(Pietro Adami)

Panorama di riferimento.

La cucina tipica della Carnia, ancora oggi in ambito regionale con più sicure e marcate peculiarità, è frutto prezioso di antichissimi costumi alimentari di un popolo di montagna che ha saputo trarre, ad uso per lo più familiare, prodotti genuini sia dal campo che dall’orto, ma anche dal bosco e dalla malga. Vanta - questa cucina - piatti talora semplicissimi per ingredienti e fattura, ma sempre carichi di personalità, talaltra ricchi per nobiltà di componenti, con acccostamenti sorprendenti, indimenticabili di spezie e aromi.
In tempi remoti le esigenze alimentari di lassù erano soddisfatte invero più che altro dai frutti secondari dell’allevamento del bestiame e dai prodotti di un’agricoltura abbastanza povera e sorda ad ogni vocazione naturale dei terreni, tanto da trascurare qualsiasi conveniente specializzazione colturale. Si trattava in prevalenza di:
-) plenta - polente, che prima di prepararsi con il mais, si cucinava con diversi cereali minori,
-) meschta - meste, sorta di farinata di mais molto simile allo storico sùf, ma un po’ più densa, cotta nell’acqua, che si mangiava versandovi sopra del latte freddo,
-) migneschtra - appetitose mignestris, prevalentemente brodose e sempre ben calde per combattere meglio la rigidità del clima, arricchite man mano di ingredienti molto semplici, fino a diventare preparazioni piene di fantasia, equilibrate nei sapori e con caratteristiche grastronomiche ben definite,
-) necklan - gnòcs, preparazioni povere spesso frutto dell’utilizzo di avanzi, a base di pane raffermo prima, poi di patate, semolino o farina, dalle dimensioni più disparate, sempre robusti e gradevoli al palato, tradizionalmente arricchiti solo da prodotti comunissimi locali quali ricotta affumicata (ckrauchta schouta - scuète fumade), burro fuso (sghmolz - ont), salame (salàm), erbe aromatiche (greisarach - jerbuzzis), latte colostro (kaloschtara - calostri), biete (bledes), zucca (cavoce).
Fra le delizie del tempo, meritevole di essere gustato da quanti amano le preziosità, v’è anche il frico, che riunisce - secondo una credenza popolare della Carnia - tutti i profumi dei pascoli alpini: è semplice fritto di formaggio, tagliato a piccole fette, anche con l’aggiunta di patate, cipolla, mele.
Questo frugale, quanto affascinante panorama gastronomico si è peraltro distinto in passato e si distingue tuttora per alcune singolari specificità, estranee invero all’ambiente locale più tradizionale, anzi facilmente correlabili a usi e preferenze correnti in alcune aree centroeuropee contermini. E’ noto, infatti, che nell’alto Medio Evo significative migrazioni di gente di origine germanica, stabilitasi in via definitiva tra le montagne carniche, hanno costituito colà importanti isole alloglotte.
 
 
La cucina di Timau

Fra queste, ben nota è quella di Timau ovvero Tischlbong (Tischelwang in carinziano), situata nell’alta Via Giulia, ove si parla di un primo insediamento abitativo intorno all’anno 1100 - che sembra sia stato del tutto abbandonato in seguito ad una grave epidemia - e di una successiva colonizzazione forse appena dopo il 1250 da parte di gente proveniente in prevalenza dalla Valle del Gail, nella Carinzia meridionale. Non si trattava, in questo caso, di agricoltori o di pastori (come nel caso di Sauris), ma curiosamente di minatori che recavano sicuramente con sé la specifica professionalità già acquisita nel vicino Oltralpe. Va rilevato, infatti, che a Schwarz, Rattenberg, Kitzbühel, Radstatt, Gastein, Ster-zing, Taufers prosperavano nel Medioevo industrie minerarie d’argento e di rame, anche parzialmente collegate tra loro. Solo in quelle di Schwarz, per esempio, lavoravano ben otto-novemila lavoratori e questa forte concentrazione di manodopera, che non poteva certo essere alimentata solo dall’Austria, interessava - almeno così si può presumere - molti minatori provenienti da aree ben più lontane, per esempio dalla Slovenia e perfino della Sassonia.
Che Timau fosse comunque inserita in un circuito minerario importante del tempo è dimostrato curiosamente da ripetute testimonianze correlate al Knappen-geschrei cioè alla voce dei minatori che spontaneamente facevano circolare in tutta Europa notizie di nuove miniere e relative opportunità di lavoro durature e promettenti. In proposito, osservava l’illustre storico friulano di fine secolo scorso, Francesco di Manzano che “...nelle rupi altissime e perpendicolari che si innalzavano sopra le case di Timau e nei monti vicini si trovavano un tempo minerali d’oro, d’argento, di piombo, e ciò diede inizio alla colonia. Un nobile dell’antica stirpe veneziana dei Savorgnani fece necessari apparecchi per scavare colà dei pozzi e fondere minerali. Chiamò all’uopo minatori della vicina Carinzia. Quindi si eressero adatte fucine nella valle, in cui conferivano le acque montane ed i torrenti. Si scorgono ancora oggi cave nelle rupi, dalle quali si traeva il metallo, rimasugli di un forno di fusione...”
Rammenta, sempre di Manzano, che tuttora “...gli abitanti di Timau all’aspetto esteriore, nei costumi e nelle vesti somigliano ai Carinziani ..., ...parlano tra loro una specie di tedesco, anche se piuttosto corrotto..., mantengono nomi di famiglia tipici come Primus, Mentil, Plozner, Prenner dalla Carinzia, Matiz dalla Slovenia, ...si tramandano specifici usi alimentari...”
 
Il riflesso che si nota ancora oggi sulla cucina timauese delle usanze carinziane è forte e chiaro, nonostante l’isolamento secolare e durissimo abbia comportato un forzato graduale adeguamento agli stentati parametri dell’economia agricola locale, con conseguente impoverimento dei cibi e perdita di alcuni dei valori gastronomici originari di maggior pregio. Basta ricordare al riguardo:
-) da Farvalan, piatto semplicissimo, senza condimento alcuno, adatto agli anziani e ai bambini. Si fa con la farina di frumento unita a dell’acqua fredda, in modo da ottenere un composto granuloso che viene versato successivamente in acqua e latte (in eguel misura) bollenti. Si mescola lentamente fintantochè l’impasto diventa un po’ cremoso e si formano piccoli gnocchetti; ricorda molto da vicino la pasta a bricioli carinziana (Wasserfarvalan), che molto spesso peraltro viene arricchita dall’uovo;
-) la speciale varhackara, cioè il lardo della parte sottocutanea del maiale con poca carne attaccata, salato, pepato e appeso ad essiccare. Viene poi tagliuzzato molto finemente, mescolato - se lo si desidera - con dell’aglio e conservato nella piera. Con la Vahachara - che è tradizionalmente in uso soprattutto a St. Ruprecht e dintorni, in Carinzia - si prepara un appetitosissimo antipasto o merenda, spalmandola cruda su fette di pane o crostini, un prelibato condimento per verdura fresca o minestroni, nonchè un originalissimo frico, mettendola a friggere in un pentolino, togliendo successivamente i pezzettini di carne, aggiungendo formaggio e cipolla, cuocendo tutto fino ad ottenere una preparazione piuttosto croccante;
-) da chropfn, ovvero i cjalzòns, molto simili nella forma di mezzaluna, nel singolare gonfiore e nella tipica increspatura dei bordi ai Kasnudel carinziani, peraltro di più ridotte dimensioni. Presentano - quelli preparati nel centro abitato timauese - un accentuato sapore di menta; il prezzemolo prevale invece nettamente in quelli preparati nell’immediata periferia, per esempio a Cleulis;
-) is pluatburscht, che non è altro che il Blutwurst portato dai minatori carinziani, ormai del tutto in disuso; assomiglia al cinquecentesco boldòn carnico che si ottiene “...mettendo a bollire il sangue di maiale, aggiungendovi un po’ di latte, di farina, di cannella e di pepe. Si fa bollire fino a quando il composto non comincia ad addensarsi. Nel frattempo si lavano le budella che vengono riempite con il sangue, quindi chiuse e messe a bollire. Si raffreddano poi, si tagliano a fette e si mangiano rosolate nello strutto...”;
-) in bildinkaffe, una sorta di bevanda singolarissima, che proprio vero caffè non è, ma semplicemente un grossolano surrogato. Secondo una antica usanza importata dall’Austria si utilizzava allo scopo un tipo di fava che si usava coltivare a Timau ai bordi di tanti orti familiari. Il frutto era costituito da bacelli piuttosto simili ai fagioli, di color grigio, un po’ tondeggianti, si mettevano a seccare al sole e poi ad abbrustolire, cercando di uniformarne la cottura. I bacelli cotti diventavano neri e venivano macinati, ottenendosi una polvere - alle volte finissima - che si metteva in un piccolo contenitore con acqua. Il risultato era un liquido scurissimo, molto amaro e forte, che si gustava zuccherato e “...tanto caldo quanto lo si poteva sopportare.” Era indicato anche come digestivo o contro il mal di pancia, comunque come “...ottimo rimedio contro la rozzezza di alcuni cibi...”.
Un altro surrogato, pure un tempo molto corrente, era in kaffee min piachlan cioè di semi di faggio ovvero faggiole.
 
 
La Schultar.

Peraltro, l’apporto senza dubbio più significativo proveniente dalla Carinzia, in particolare dalla alta Valle del Gail (e del Lesach), radicato da secoli nella cucina di Timau, fino a diventarne peculiarità distintiva, è la Schultar ovvero la spalla di maiale affumicata. Il rituale di preparazione, gelosamente custodito in ambito familiare, è tuttora assolutamente artigianale e si può riassumere come segue.
 
Scelta e preparazone della carne. Perchè la carne di spalla sia adeguata - secondo un anziano informatore locale - il maiale deve essere “...affidato tradizionalmente alle cure delle donne, perchè in fatto di affettuosità si dice che esse lo preferiscano addirittura agli stessi propri parenti...”. La sua alimentazione ha da essere curata con equilibrio, in quanto solo giuste razioni di farina di cereali nel pastùm evitano una magrezza eccessiva della bestia, rendendo la carne poco adatta alla lavorazione. Il capo predestinato deve aver poi riposato una notte e a volte anche più a lungo e vedersi il suo pasto abituale arricchito da dosi più cospicue di farina di mais, in modo che esso “...si distragga e non abbia ad avvertire quanto gli sta per succedere...”. Si era ed è curiosamente convinti, infatti, che l’eventuale tensione comportasse un notevole scadimento della qualità della carne, soprattutto nei capi dotati di poco grasso. Il maiale deve essere infine macellato - preferibilmente in giornate dal clima asciutto con estrema destrezza, dovendosi paradossalmente evitare all’animale, anche in questa delicata fase, ogni tormento inutile, capace di rendere più difficile l’importante operazione successiva di dissanguamento.
Lo sgocciolamento dura uno o due giorni circa, durante i quali, perdendo il suo liquido, la carne si asciuga, favorendo così un corretto e omogeneo assorbimento delle spezie e degli aromi naturali.
 
Salatura. Si racconta a Timau “...che l’aria dell’alta Via Giulia, particolarmente asciutta, favorisce non poco l’operazione di salatura, unitamente ai frequenti temporali e alle connesse scariche elettriche. Inoltre, lassù al maltempo seguono giornate di sole particolarmente scintillante, con una escursione di umidità notevole; tale rapido alternarsi di umido e secco esercita un ulteriore benefico influsso sulla carne, promuovendo su ogni fibra e cellula un lento, penetrante massaggio, agevolando così una più omogenea salatura...”
La carne del maiale, ben lavata, deve essere sempre lasciata riposare almeno una giornata, prima di trattarla con il sale, rispettando anche qui, regole ben precise tramandate dall’abitudine e dall’uso nello stretto ambiente paesano. Il sale da utilizzare è di norma quello bianco, ridotto in piccoli grani usando una bottiglia come rullo. Soltanto nelle giornate particolarmente serene si può usare anche il sale ridotto in polvere (fino). La modulazione delle dosi avviene a vôtì, secondo antica esperienza e consolidato orientamento del gusto.
Il pepe - quello nero - va modulato, invece, in quantità maggiore se l’animale è stato macellato verso i primi giorni di dicembre ovvero in giornate di scirocco. Non può mancare, vicino all’osso, perchè così impedisce alle mosche di depositarvi le uova, circostanza che prelude a sgradevoli sapori e odori.
 
Affumicatura. Questo trattamento - introdotto a Timau con assoluta certezza dai primi coloni d’Oltralpe - sfrutta tecniche antichissime secondo le quali l’esposizione della carne di maiale salata a secco al fumo fa acquisire colore, aroma, profumo più vivi, oltre che maggiore appetibilità e consistenza. E’ nota del resto la ricerca spontanea in tutta la Car-nia di cibi sapidi, intensi, forse perchè capaci di produrre una più accentuata sensazione di sazietà o perchè “...bastavano così di meno per far porzione alla tanta polenta e duravano più a lungo come riserva di sussistenza per il futuro...”
Il legno preferito per l’affumicatura della Schultar è quello secco, asciutto di faggio (che dà fumo leggero e rende la carne più dolce) o di abete. D’estate si usano anche rami di pino mugo. Curiosa è, al riguardo, la diversa valutazione dei vecchi timauesi sull’utilizzo della legna: per certuni quella resinosa andrebbe decisamente esclusa perchè darebbe sapori troppo acri, comunque sgradevoli e ricoprirebbe la superficie della carne di una sorta di fuliggine; per altri, invece, proprio per questi motivi sarebbe da preferire. Comunque la carne della spalla di maiale da affumicare non deve essere mai posta troppo vicina al fuoco per evitare il rischio di essiccamento; deve esporsi non più di due o tre ore circa al giorno, un po’ al mattino un po’ alla sera, per circa venti-venticinque giorni, promuovendo in tal modo un insaporimento graduale e compiuto della carne. Il locale per l’affumicatura, mai umido o luminoso, è normalmente di una altezza di circa due metri e mezzo e dotato di piccole finestrelle rettangolari che si pongono ad una altezza tale da permettere nella parte più alta il mantenimento di una nube cospicua di fumo intenso e costante.
 
Cottura. La Schultar viene bollita in abbondante acqua salata per circa novanta minuti, fino a quando “...la forchetta non vi entra con facilità...e la carne non si stacca dall'osso”. Si dice a Timau che l’abilità del cuoco consiste nel promuovere una specie di guscio che non permette all’acqua di penetrare, pur consentendo alla temperatura di trasmettersi gradualmente è progressivamente all’interno, favorendo “...il mantenimento della succolenza e lo sviluppo del sapore migliore che si possa immaginare...”.
 
A tavola. A cottura ultimata si taglia la Schultar a fette grosse quanto un dito o poco meno.
E’ di prammatica per Pasqua, con pinca - focaccine dolci e vino bianco (a volte anche con salame bollito), debitamente benedetta in chiesa secondo un antichissimo rito d’Oltralpe.
 
La Schultar appartiene a pieno titolo e a buon diritto a quelle nicchie, a quei preziosissimi giacimenti gastronomici che hanno sempre valorizzato la cucina friulana e che sono oggi purtroppo in gravissimo pericolo.
Da un lato l’oblio e il sovrapporsi di usi estranei creano irrimediabilmente, anche lassù, nuove realtà, dall’altro l’indisponibilità di reti commerciali adeguate precludono del tutto una giusta considerazione e immediato accesso alla grande distribuzione. Inoltre, le generalizzate norme comunitarie e nazionali impongono sempre più perentoriamente adeguamenti tecnologici e sanitari tanto indiscriminati, quanto di onerosissimo investimento, pressochè insostenibili da parte di qualsiasi artigiano d’arte del settore alimentare. Il cui prezioso ruolo andrebbe invece riconosciuto e salvaguardato, in uno con l’imprescindibile difesa delle specificità gastronomiche che, in definitiva, appaiono le sole capaci di risparmiarci, anzi di preservarci dagli effetti negativi dell’incombente processo di industrializzazione diffusa e della conseguente omologazione delle produzioni, dei sapori, dei gusti.
 

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